Vidi Antonio Spallino per l’ultima volta nel giugno, tre mesi prima della sua morte.
Mi accolse, nella sua casa di via Coloniola a Como, seduto alla sua scrivania, con davanti tanti, tanti libri. Leggeva ancora; ed annotava (secondo una sua abitudine).
Come al solito, mi fece accomodare su un divano del salotto, ove mi raggiunse con passo incerto. Affaticato ma presente: un sorriso non spento, occhi lucidi ma ancora indagatori.
Sedevamo così, Nino ed io, come un tempo: ma non erano più gli interessi e i discorsi di un tempo. Davanti a noi ampie vetrate mostravano la vista su Como, con al centro uno spicchio di lago, Villa Olmo e sopra la sella di Monteolimpino dove – un po’ più in qua, un po’ più in là – tramonta il sole.
E lui aspettava l’ultimo tramonto.
Non lo ha detto (non lo avrebbe mai detto). Ma alla morte aveva pensato per tempo: razionalmente, scientificamente, culturalmente, come uno dei tanti problemi che la vita ci pone, e disponendosi ad affrontarlo con l’impegno, la serietà e profondità con cui aveva sempre saputo fronteggiare ogni problema. Con coraggio e lucidità.
Quando, di lì a poco tempo, mi telefonò un figlio per dirmi che il padre si era spento serenamente all’alba, confesso che provai un senso di sgomento ma anche di sollievo. Sgomento per me e sollievo per Lui. Aveva fatto il passo che aspettava e temeva; non ci sarebbero più state albe e tramonti specchiantisi sulle acque dell’amato lago.
Nel commosso ricordo dei figli, durante le esequie, spiccò la lettura del testo del ^Canto di Simeone^ di Thomas S. Eliot: una pagina che – seppi poi – Nino aveva annotato con grafia tremolante e scrittura in stampatello, con la parola ^morire^.
Prefigurava quel passaggio, sperato e temuto, con questi versi: “Signore, i giacinti romani fioriscono nei vasi e il sole d’inverno rade i colli nevicati: l’ostinata stagione si diffonde… La mia vita leggera attende il vento di morte come piuma sul dorso della mano”.
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La prima volta che vidi (non conobbi) Antonio Spallino, ero ancora studente liceale. Accompagnavo un compagno di classe che abitava in un palazzo di via Luini, dove era ubicato – al primo piano – lo studio dell’avvocato e senatore (nonché Ministro per più anni) Lorenzo Spallino.
Eravamo entrambi fermi davanti il portone chiuso, ed occorreva citofonare perché venisse aperto. In quel mentre sopraggiunse Nino, che aveva la stessa nostra esigenza; il mio compagno si ritrasse per dargli la precedenza, ma lui non volle: con un sorriso disse che lui era arrivato dopo, e che avrebbe aspettato ben volentieri.
Ripensando poi a questo episodio vi lessi un doppio presagio: quel giovane, già famoso perché brillante avvocato ed intellettuale, ed olimpionico campione di scherma, sarebbe poi diventato per me l’incontro di una vita; e quel suo modo di ritrarsi, per il rispetto dell’altrui precedenza, la connotazione di uno stile di vita, signorile quanto rispettoso delle regole.
Mi toccò poi in sorte – come non pensare ad un destino già tracciato, e quindi ad un incontro premonitore? – di condurre la mia esistenza al suo fianco per ben tre quarti della mia vita da avvocato. Molto di più di una comunanza di interessi professionali, poiché ci legò una identità di sentire e di vedute che andavano ben al di là dell’essere entrambi avvocati: il senso del dovere, una diligenza ed un impegno di grande spessore; la fedeltà ad alcuni ideali morali, sociali e culturali; una complementarietà naturale nell’assolvere i compiti che ci venivano dai mandati congiuntamente assunti.
Per oltre trenta anni, oso ritenere che si è trattato di un sodalizio straordinario per competenze, serietà e rigore; sodalizio dal quale transitò, ed a cui contribuì alimentandosi, un filone importante della avvocatura comasca e ben tre ottimi e noti magistrati (prima di accedere alla magistratura).
Nelle intese tra noi vi era anche un accordo tacito: la mia presenza nello studio consentiva a Nino di adempiere ai suoi doveri di amministratore pubblico, assolti in varie ed importanti cariche; e ciò per il comune convincimento che entrambi eravamo in debito verso la collettività per il servizio disinteressato da rendere agli altri, e che chi dei due aveva più capacità e competenza (e cioè Nino), dovesse provvedervi supportato nella attività professionale dall’altro.
Il secondo presagio, di signorilità e stile, trovò conferma in tutta la esistenza e vita di Nino.
Di Antonio Spallino si è scritto e detto molto – come atleta, come uomo, come intellettuale ed amministratore pubblico – ma una cosa su tutte caratterizzò il suo modo di pensare e di agire nei molti campi in cui si cimentò; ed anche lo differenziò dai molti, soprattutto uomini politici, con cui si trovò ad interloquire ed operare.
Fu uomo delle regole; regole scrupolosamente osservate quando c’erano; ossessivamente ricercate quando non c’erano; pugnacemente dissepolte ed imposte quando oscurate.
In questo suo essere ^l’uomo delle regole^ si colloca anche il limite di carriera sportiva e politica, le quali hanno conosciuto, entrambe, degli improvvisi ^stop^.
Quando, fresco di medaglia olimpica, il Coni decise una certa operazione di vertice in dispregio della legittimità e delle regole, Spallino si rifiutò di disputare le Olimpiadi tenutesi a Roma negli anni ‘60. Per motivi etici, sacrificandosi come sportivo, finì la sua carriera di atleta.
Lo stesso accadde per le cariche pubbliche: con i ^barbari^ alle porte, e la loro contaminazione delle regole nel sopravanzare ed affermarsi, finì anche il suo servizio reso alla città di quello che unanimemente è stato definito, alla sua morte, ^il Sindaco più grande di Como^.
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Ma il suo servizio disinteressato e generoso per Como non finì con la fine della sua attività politica.
La sua figura preminente continuò ad essere presente in molti campi, soprattutto in quello della solidarietà.
Antonio Spallino, a partire dal 1990 e per i successivi anni fino al 2010, succedendo al fondatore cav. Felice Baratelli, fu il Presidentissimo de ^La Stecca^, associazione che riunisce, all’insegna della solidarietà e del fare il bene per il bene, tutti i comaschi al compimento del cinquantesimo anno. Una delle più benemerite istituzioni di Como.
Nino onorò la Stecca, oso dire più di tutti: per la sua figura luminosa, ed universamente apprezzata, nei varii campi in cui si è impegnato.
A lui toccò, negli anni ‘70, anche quella carica di Commissario Straordinario di Seveso, dopo la tragedia della Icmesa, che ha dischiuso, per la prima volta, nuovi ed inquietanti interrogativi alla scienza ed alla morale.
Per la sua statura civile, sociale e culturale, è stato un personaggio, forse il personaggio più stimato ed apprezzato, e riconosciuto come tale nell’ambito comasco degli ultimi decenni.
Con queste prerogative e queste qualità Spallino, che già era Presidente della sua classe 1925, fu chiamato a raccogliere la eredità del fondatore Baratelli.
Non fu una sorpresa che venne unanimemente indicato; per me lo fu, invece, che ne accettasse onori ed oneri.
Spallino non aveva certo bisogno di visibilità presso la città, che lui aveva amministrato per tanti anni, lasciandone i segni ben visibili anche oggi; dunque, per lui, quello che contava erano gli oneri: vale a dire un modo nuovo per assolvere un impegno verso la società ed, in particolare, la città.
Come Presidente di una classe, aveva maturato il convincimento del valore e della funzione di una Associazione come la Stecca, che vedeva inserita nel tessuto cittadino come promotrice di bene, di valori di solidarietà, umanità, e sane tradizioni, che avrebbero portato, come linfa nuova, un valore aggiunto alla ^sua^ Como.
E la sua Presidenza è stata illuminata da questo spirito e da questa volontà, che ha ulteriormente accresciuto e fatto apprezzare questa importante istituzione comasca: un ulteriore atto di amore per la sua Como.
Como, lì 16 ottobre 2017
Luigi Fagetti